Articolo riportato da www.osservatoriomalattierare.it
"La mia
condizione mi ha permesso di superare i limiti che tutti noi ci mettiamo
davanti, come degli alibi per non fare ciò che desideriamo"
Fabio Lepore ha scoperto a 16 anni di avere la malattia di Stargardt,
patologia rara che comporta la progressiva perdita della vista. La
diagnosi non gli ha però impedito di realizzare i propri desideri e di
perseguire l’ambizione professionale: oggi è infatti un giornalista free lance di successo, e ha realizzato reportage internazionali per molti dei periodici nazionali.
Fabio, intervistato dai microfoni di Superabile.it, ha raccontato come la malattia lo abbia condotto all’ipovisione ma non gli abbia impedito di realizzare i suoi sogni.
"Ho scoperto di avere la malattia di Stargardt a 16 anni
- spiega - durante un controllo di routine. Si tratta di una patologia
degenerativa che crea delle interferenze nella macula, rendendo sempre
più difficile la messa a fuoco del campo visivo centrale. Rientra tra le
cosiddette malattie rare della retina, per le quali non esistono cure.
Dopo la diagnosi, con mia madre e mio padre, che è medico, ho
iniziato una serie di pellegrinaggi, vedendo specialisti a Parigi, alla
Columbia University di New York e al San Raffaele di Milano, dove ho
anche partecipato al Progetto genoma. Ma non c'è stato molto da fare".
Fabio appare disteso mentre ricorda quel periodo, ma non è stato sempre
così: "La malattia - continua - è una compagna scomoda con la quale
devo dialogare in continuazione. Ho dovuto accettarla, ma non è stata
affatto una cosa immediata. Quando me l'hanno diagnosticata ero solo un
ragazzino. Nel giro di un'estate ho perso tra i 5 e i 6 decimi
per occhio e di colpo le mie prospettive sono cambiate: sapevo che non
avrei mai potuto guidare e credevo che non avrei mai potuto fare tante
altre cose. Ricordo che all'inizio tendevo a nascondere la
malattia, così, nel paese dove sono cresciuto, molti credevano che non
li salutassi più per una questione di snobismo. In realtà non li
riconoscevo. Alla fine sono entrato in depressione, e ci sono voluti
anni per uscirne".
Col tempo, però, Fabio ha saputo dimostrare a se stesso che si sbagliava. "Credo
che in realtà la mia condizione mi abbia permesso di superare una serie
di limiti che tutti noi ci mettiamo davanti, come degli alibi per non
fare ciò che realmente desideriamo. Fin da ragazzino, ad
esempio, uno dei miei sogni era di lanciarmi con il paracadute, ma
l'impatto con la retina poteva essere dannoso. Così ho deciso di
iscrivermi a un corso di parapendio e alla fine sono riuscito a fare
alcuni voli in solitaria. Gradualmente ho iniziato ad assumere un nuovo
atteggiamento nei confronti della vita: ora, quando mi si presenta la
possibilità di fare una nuova esperienza, anziché chiedermi ‘perché', mi
chiedo ‘perché no?' Un'altra grande passione per me - continua - è
sempre stata la montagna. Sognavo di arrampicarmi su ghiaccio e ho
imparato a farlo. Qualche anno fa c'era in giro una pubblicità
ambientata nel ghiacciaio del Vatnajokull, in Islanda. Vedendola mi è
venuta voglia di andare ad arrampicarmi lì: così sono partito, ho
trovato una guida alpina e in una settimana ho scalato il ghiacciaio".
In quell'occasione, Fabio realizza anche uno dei suoi primi reportage:
ogni due giorni è in collegamento con Zip Radio, un’emittente torinese,
raccontando la vita dei villaggi in cui si ferma lungo il cammino e
intervistandone gli abitanti.
Poi, nel giugno del 2010, è la
volta dell'Afghanistan. "Qualche mese prima, una mia amica fotografa,
Valentina Bosio, mi aveva contattato dicendomi che aveva la possibilità
di raggiungere la Brigata alpina Taurinense, che era appena partita per
il suo turno. All'epoca facevo il giornalista già da 3 anni, per cui ero
in contatto con alcuni settimanali che potevano essere interessati ai
nostri servizi. Quando lavoro cerco sempre di farlo con un fotografo:
non solo per una questione di professionalità, ma anche perché mi aiuta a
superare alcuni limiti che la mia condizione mi impone. Riguardando gli
scatti, ad esempio, posso cogliere particolari che sul momento non
riesco a vedere; un fotografo può inoltre ‘raccontarmi' in tempo reale
quello che succede a distanze che da solo non riesco a mettere a fuoco.
Nei 15 giorni in Afghanistan - continua Fabio - abbiamo avuto la
possibilità di spostarci molto. Siamo stati in un villaggio nei pressi
di Shindand, dove per Focus Junior abbiamo potuto realizzare un servizio
sulla vita dei bambini locali, di cui vado molto fiero. Siamo stati
anche a Bala Murghab, dove appena un mese prima erano morti due alpini
nell'esplosione di un ordigno. Quello è stato un turno davvero duro per
la Taurinense".
Pochi mesi dopo, a dicembre del 2010, Fabio
parte per l'India, per realizzare un servizio sulla Rickshaw run, la
corsa dei Tuk Tuk (i taxi a tre ruote, simili alla nostra Ape Piaggio)
che attraversa tutto il paese. "Sono partito con due amici, uno dei
quali è un regista, con il quale abbiamo cercato di realizzare un mini
documentario. Posso dirti che siamo rientrati nel 60 per cento delle
squadre che sono arrivate fino in fondo, anche se siamo arrivati
esattamente ultimi (ride, ndr). In realtà ci interessava visitare
l'India, quindi ci siamo fermati in parecchi villaggi, entrando a
contatto con la popolazione locale, scattando foto, facendo interviste.
Alla fine siamo arrivati proprio nell'ultimo dei 19 giorni di gara: ma
il nostro Tuk Tuk era quello ridotto meglio di tutti. Comunque, visto
come si usa guidare in India, posso dirti che in media ho avuto più
paura su quelle strade che in Afghanistan".
Riporto da www.superabile.it
Il free lance torinese racconta il suo rapporto con la malattia che
gli ha ridotto la vista: "Ho scelto di non lasciarle più spazio del
necessario. Di non darle troppo potere"
TORINO - Per Fabio Lepore, reporter 35enne (vedi lancio precedente) il
giornalismo è come l'ossigeno: come freelance, ogni giorno deve iniziare
a scovare notizie appena sveglio, per poi proporle alla rete di
committenti che si è costruito in questi cinque anni. "In realtà -
spiega - mi sono avvicinato a questo lavoro quasi per caso. Ho iniziato
con uno stage alla Camera di commercio di Milano, dove poi ho
continuato a lavorare per qualche tempo. In seguito ho lavorato come
editor per un'agenzia che si occupa di rassegna stampa, e
contemporaneamente in un'agenzia di Pubbliche relazioni, per la quale mi
occupavo anche di accompagnare giornalisti nei press trip all'estero.
Venendo sempre più a contatto con questo mondo, ho iniziato ad avere
voglia di misurarmi anche io con la notizia. Ironicamente, il mio primo
articolo per il settimanale Viversani era proprio sulle malattie rare".
Con un decimo di vista per occhio, Fabio Lepore ha vissuto in 35 anni
più esperienze di quante molti riescano a farne in una vita. "Nella mia
vita - continua - ho scelto di non lasciare alla malattia più spazio del
necessario. Di non darle troppo potere. Per questo non voglio pensare
che sia stata quella la molla che mi ha spinto a vivere in un certo
modo. Ho avuto la fortuna di non sentirmi discriminato nell'ambiente di
lavoro. Certo, in passato a volte ho avuto l'impressione che qualche
collega fosse infastidito dal fatto che io debba ingrandire molto i
caratteri per leggere al computer, o che debba tenere il viso molto
vicino allo schermo. Ma ormai sono arrivato alla consapevolezza che sono
problemi loro: io devo solo occuparmi di far bene il mio lavoro".
"Certo - conclude - la mia vita non è stata sempre facile. So di
apparire come un tipo molto tranquillo, ma ancora oggi mi capita di
essere furioso nei confronti della mia malattia. Ci sono state cose che
mi hanno fatto male e per le quali sento ancora dentro della rabbia.
Quando ancora andavo al Liceo classico dovevo fare le traduzioni di
greco con il Rocci, un dizionario scritto con dei caratteri molto
piccoli. In quel periodo, ci fu una dottoressa in Francia che mi
consigliò di lasciar perdere gli studi, di rassegnarmi a una vita più
tranquilla, magari come commesso in un negozio. Probabilmente
quell'onestà brutale voleva essere a fin di bene, ma quell'episodio mi
ha creato una rabbia che mi sono portato dentro per anni. E in ogni caso
sono felice di non averla ascoltata". (Antonio Storto)