Cari tutti, vi riposto una riflessione che condivisi nel lontano 2013 in una intervista su AREA di Torino.
Dopo 11 anni la mia consapevolezza non è minimamente cambiata.
E vorrei condividere con voi in chiusura di anno questi pensieri, perchè la disabilità non esiste, è una definizione che non ci deve appartenere.
"La disabilità… in un mondo che non si ferma alle etichette nei fatti non dovrebbe esistere. Almeno non come termine.
Lo dico proprio da disabile e ne sono piuttosto convinto.
Tutti, in differente misura, abbiamo predisposizioni, fragilità e difficoltà. Ma se uno è completamente negato per il disegno o per la matematica, ad esempio, al più si sentirà dire “non ci sei portato” e verrà quindi spronato a lavorare su se stesso per trovare la strada più adatta alle sue attitudini e predisposizioni.
Questo, invece, non accade quando per una ragione fisino-anatomica sussistono limiti fisici per applicarsi alle cose della vita quotidiana.
L’intorno in cui viviamo, però, è talmente condizionante da essere la principale causa delle sofferenze derivate dalla condizione di fragilità o non abilità che si sta vivendo.
Quando, appena ventenne, ho iniziato a capire che molto probabilmente per i miei occhi il futuro non sarebbe stato “normale”, i timori che per primi hanno bussato al mio petto sono stati proprio quelli che rispondono alla domanda “e adesso come faccio a fare le cose normali?”
Ma, appunto nel mio personale caso, dal giorno della diagnosi il pensiero è stato sempre uno: "che lavoro potrò fare?" Mi ero da poco laureato quando ricevetti l’esito dell’esame genetico che annunciava la mia condizione di malato di Stargardt. Sentii il boato che anticipa il terremoto, ma lo scossone in realtà fu molto più lieve di quel che temevo. Aver peregrinato anni in cerca di una diagnosi definitiva aveva fatto crescere in me la consapevolezza che il mio futuro, qualsiasi fosse stata la mia malattia, sarebbe dipeso solo da me stesso, dalle mie forze e dal mio ingegno.
Uno fra tutti, ho colto l’occasione della necessità relativa al limite imposto dalla mia difficoltà negli spostamenti per cambiare lavoro, riducendo anche il numero di ore lavorative e, gioco forza, ridimensionando il mio stile di vita. Ho guadagnato tanto tempo riappropriandomi della serenità che mi serviva per razionalizzare la mia esistenza e quella di chi vive nella mia dimensione.
Il nuovo equilibrio cui ho iniziato a tendere mi ha anche permesso di rivedere una ferma posizione su cui avevo piantato profondissimi paletti: alla notizia della natura genetica ed ereditaria della mia malattia avevo, infatti, deciso che non avrei avuto mai figli, radendo così la promessa di avere una famiglia numerosa.
Immaginandomi padre, pensavo al fatto che non sarei potuto andare a prendere mio figlio a scuola, che non lo avrei potuto portare in giro con l’auto a visitare posti e luoghi, che non sarei stato capace di aiutarlo a fare i compiti perché non leggo se non sto a dieci centimetri da un foglio scritto grande, che non avrei saputo raccontargli e leggergli le favole perché non potevo prendere un libro e mettermi a leggere la sua favola preferita vicino al suo letto per addormentarlo. Pensavo che si sarebbe potuto vergognare nell'avere un padre che va a tre cilindri, incapace di fare tante delle cose che gli altri padri fanno con naturale disinvoltura, o di quanto mi avrebbe potuto maledire se, un giorno, avesse manifestato anche lui i segni della Stargardt.
Quanta paura, quanti timori.
Quando infine ho capito che, nei fatti, la mia condizione rappresentava una concreta chance per costruire un’esistenza basata sulla bellezza della vita stessa, scaricando molta della zavorra esistenziale che inutilmente ci appesantisce, allora ho scardinato quei pesanti paletti che avevo personalmente piantato.
Ho deciso che la vita è una cosa troppo bella per farsi spaventare, anche da una malattia.
È nato così il mio piccolo Massimo, uno splendido pupetto sveglio e curioso. Era il 2012. E nel 2019 è poi arrivato Cesrae, il piccolo di casa.
Sono strane le vicende della vita.
Non si può davvero mai sapere cosa ci attende domani. Massimo era lì davanti a me, a poche ore dalla nascita, esausto e indifeso nella sua culla di ospedale, quando a un tratto la mia mente ha preso a elaborare possibili soluzioni ai problemi che, fino a nove mesi fa, mi stavano per far rinunciare a questa meraviglia della vita. “Non posso portarti in giro con l’auto?” pensavo, “beh allora mi prendo una bici pieghevole e con te sul carrello agganciato dietro ti porto in giro per il mondo, ovunque potrà accompagnarmi un treno o un aereo. Con i soldi risparmiati, non avendo io bisogno dell’auto, sai quanti giretti ci faremo io te e la mamma?
E, visto che non posso lavorare troppe ore per non affaticare la vista, avremo tanto tempo per stare insieme, per giocare e per scoprire le bellezze del mondo, semplicemente stando uno al fianco dell’altro.
E se non riuscirò a vedere bene un animaletto che sta sfuggendo schivo nel folto del bosco… figli miei ci sarete voi ad indicarmi dove poter indirizzare il mio monocolo ingranditore per poter vedere in prima persona cosa accade in questa immensa avventura che chiamiamo VITA.”