Cari compagni di Stargarddt...
Attendendo notizie sugli sviluppi dei nuovi importanti trial clinici dedicati alla Stargardt, ho ritenuto doveroso evitare di produrre post con rumors e notizie non ufficiali. Sui social se ne stanno sentendo davvero di ogni, ma per quanto riguarda il mio blog beh, la mia visione vuole essere più pratica e concreta: troverete qui solo notizie accertate e verificabili, pertanto questa scelta si traduce inevitabilmente in un silenzio da parte mia che, spero, verrà rotto con eclatanti novità quanto prima.
Ritengo infatti di avere, ad oggi, affrontato tutto quello che era di mia conoscenza riguardo la nostra cara, si fa per dire, vecchia Stargardt. Da quando iniziai a scrivere i primi post su queste pagine (era il 2010), la consapevolezza e la conoscenza di questa malattia hanno fatto balzi in avanti. Siamo passati dall'era del buio totale, in cui ci siamo mossi io ed altri vecchi amici Stargardiani, a una situazione in cui il sapere si è diffuso velocemente e largamente.
Oggi, con una semplice ricerca sul web è possibile trovare quelle risposte che io, a suo tempo, non ho trovato. Ed è un risultato apprezzabile, perché davvero non dovrà mai più verificarsi una situazione come quella che ho sperimentato nei quasi dieci anni di pellegrinaggio specialistico, in attesa di sapere che cosa stesse fiaccando la mia vista.
Parallelamente, però, mi rammarico per la mancata evoluzione di quello che riguarda gli aspetti sociali, umani, emotivi e psicologici dell'approccio alla malattia.
Ad oggi, per il mio modo di vivere la cosa, non esiste ancora un vero approccio umano alla malattia. La diagnosi per fortuna arriva molto più rapida e precisa che in passato, ma la violenza con cui questa viene proposta ai destinatari non è cambiata di una virgola.
Il responso clinico è un pugno in faccia, e non viene minimamente presa in considerazione la concreta possibilità di una terapia di supporto per la "digestione" della diagnosi.
Fatta salva qualche rarissima eccezione, in Italia va così.
Beh sapete che c'è?
Io sono di parere diametralmente opposto.
Ma non è una faccenda che riguarda la Stargardt soltanto, bensì ritengo sia di valenza universale. Ogni evento, imprevisto e dirompente, nella vita di una persona può impattare in maniera distruttiva, se non gestito correttamente.
Ma un'altra possibilità esiste.
E ne ho le prove, oltre che la convinzione.
Ha richiesto anche questo anni di lavoro, ma ormai per il sottoscritto è una regola: come ho già raccontato in post precedenti, la malattia, per me, ha rappresentato (e rappresenta) una preziosa opportunità.
Di cambiamento.
Di crescita.
Di miglioramento.
Preziosa, per quanto inizialmente dolorosa. Ma non ci sono alternative. Non ci è dato modo di scegliere. La genetica ha scelto, malgrado tutto e tutti. Noi possiamo solo decidere cosa fare con quello che abbiamo, la nostra vita.
Ed è per questo che ho deciso di riportare qui sotto un testo. Un vecchio post, tante righe a cui spesso torno, con la mente e col cuore. Perché fanno bene, anche a me che le ho scritte. Il cuore le ha stampate a chiare lettere nella sua profonda memoria, ma la vita alle volte può agire come una tempesta, spazzando i pensieri e mettendoli in disordine.
Per fortuna le parole sono pietre e, per una volta, mi piace pensare che questa affermazione possa avere una accezione costruttiva, rendendo granitico il pensiero che oggi torno a condividere con voi.
Attendendo notizie sugli sviluppi dei nuovi importanti trial clinici dedicati alla Stargardt, ho ritenuto doveroso evitare di produrre post con rumors e notizie non ufficiali. Sui social se ne stanno sentendo davvero di ogni, ma per quanto riguarda il mio blog beh, la mia visione vuole essere più pratica e concreta: troverete qui solo notizie accertate e verificabili, pertanto questa scelta si traduce inevitabilmente in un silenzio da parte mia che, spero, verrà rotto con eclatanti novità quanto prima.
Ritengo infatti di avere, ad oggi, affrontato tutto quello che era di mia conoscenza riguardo la nostra cara, si fa per dire, vecchia Stargardt. Da quando iniziai a scrivere i primi post su queste pagine (era il 2010), la consapevolezza e la conoscenza di questa malattia hanno fatto balzi in avanti. Siamo passati dall'era del buio totale, in cui ci siamo mossi io ed altri vecchi amici Stargardiani, a una situazione in cui il sapere si è diffuso velocemente e largamente.
Oggi, con una semplice ricerca sul web è possibile trovare quelle risposte che io, a suo tempo, non ho trovato. Ed è un risultato apprezzabile, perché davvero non dovrà mai più verificarsi una situazione come quella che ho sperimentato nei quasi dieci anni di pellegrinaggio specialistico, in attesa di sapere che cosa stesse fiaccando la mia vista.
Parallelamente, però, mi rammarico per la mancata evoluzione di quello che riguarda gli aspetti sociali, umani, emotivi e psicologici dell'approccio alla malattia.
Ad oggi, per il mio modo di vivere la cosa, non esiste ancora un vero approccio umano alla malattia. La diagnosi per fortuna arriva molto più rapida e precisa che in passato, ma la violenza con cui questa viene proposta ai destinatari non è cambiata di una virgola.
Il responso clinico è un pugno in faccia, e non viene minimamente presa in considerazione la concreta possibilità di una terapia di supporto per la "digestione" della diagnosi.
Fatta salva qualche rarissima eccezione, in Italia va così.
Beh sapete che c'è?
Io sono di parere diametralmente opposto.
Ma non è una faccenda che riguarda la Stargardt soltanto, bensì ritengo sia di valenza universale. Ogni evento, imprevisto e dirompente, nella vita di una persona può impattare in maniera distruttiva, se non gestito correttamente.
Ma un'altra possibilità esiste.
E ne ho le prove, oltre che la convinzione.
Ha richiesto anche questo anni di lavoro, ma ormai per il sottoscritto è una regola: come ho già raccontato in post precedenti, la malattia, per me, ha rappresentato (e rappresenta) una preziosa opportunità.
Di cambiamento.
Di crescita.
Di miglioramento.
Preziosa, per quanto inizialmente dolorosa. Ma non ci sono alternative. Non ci è dato modo di scegliere. La genetica ha scelto, malgrado tutto e tutti. Noi possiamo solo decidere cosa fare con quello che abbiamo, la nostra vita.
Ed è per questo che ho deciso di riportare qui sotto un testo. Un vecchio post, tante righe a cui spesso torno, con la mente e col cuore. Perché fanno bene, anche a me che le ho scritte. Il cuore le ha stampate a chiare lettere nella sua profonda memoria, ma la vita alle volte può agire come una tempesta, spazzando i pensieri e mettendoli in disordine.
Per fortuna le parole sono pietre e, per una volta, mi piace pensare che questa affermazione possa avere una accezione costruttiva, rendendo granitico il pensiero che oggi torno a condividere con voi.
Siamo malati.
Primo dato di fatto.
È colpa nostra?
No.
È colpa di qualcuno?
No.
E se anche fosse? Cambierebbe qualcosa? Trovare un capro espiatorio ci consegnerebbe la guarigione dalle nostre sofferenze?
No.
E allora? Cos’è questa battaglia? Una guerra senza quartiere contro un nemico inesistente, che ci trasforma nello spettro di ciò che dovremmo essere.
Siamo cigni candidi, ma piuttosto che inseguire orizzonti radiosi ci camuffiamo da corvi, intrappolati nella più buia delle notti.
La vita è una cosa magnifica.
Secondo dato di fatto.
La malattia può cambiare questa evidenza?
No.
La malattia è inerme. Siamo noi a darle volto e corpo, consegnandole fattezze quasi umane. È la nostra rabbia a darle potere. Mal convogliate, le nostre forze ci si rivoltano contro, ci avvelenano, distruggendo la bellezza che è in noi. Intrinseca e imprescindibile.
Siamo esseri di pura bellezza, noi. Ad ogni respiro ci mescoliamo con l’universo infinito, in cui esistiamo.
Perché chiamiamo quella stronzala nostra malattia? A cosa serve? Alimenta odio, genera sofferenza. E a soffrire siamo noi, o sono quelli che vorremmo aiutare.
Mi rivolgo a chi sta intorno ai malati.
Siamo malati, appunto.
E allora?
Quello che avremmo dovuto essere, non potremo diventare.
E allora?
Ma poi, chi l’ha detto?
Il nostro destino è mutevole. Ne siamo padroni. Plasmabile secondo i nostri sogni.
Nostri, appunto, e di nessun altro. Ogni notte, i sogni si rinnovano, si evolvono. In continuo divenire, mutano con i nostri desideri. Perché restare ancorati alle proiezioni di una vita che doveva essere e che, evidentemente, non sarà?
E chi lo dice che non sarà?
Il bello di un viaggio è il viaggio, non la destinazione.
Terzo dato di fatto
Come? Non siete d’accordo?
Quindi, per voi, tutti i respiri spesi durante un viaggio sono come buttati nel cesso.
Oppure no?
Se è importante il viaggio, allora chi se ne frega se si arriva a meta oppure no. Metti poi che in viaggio, a un certo punto, decidi che non ti va più di arrivare dove avevi deciso quando sei partito. Che fai? Prosegui perché ormai è stato deciso così? Puoi sempre fermarti, rivedere tutto.
L’uomo ha il proprio destino, stretto in mano. Può cambiare direzione in ogni momento. Altrimenti, che senso avrebbe tutto?
E se durante un viaggio si rompe l’auto, che si fa? Si rinuncia?
Si può, indubbiamente. Libero arbitrio, quindi liberi di scegliere sofferenza e lacrime perpetue.
Oppure si sceglie di alzare il pollice al cielo, di tendere una mano e di cogliere un abbraccio. Così la marcia può riprendere, magari in un’altra direzione. Perché quell’abbraccio può farti capire che la meta iniziale non era veramente dove volevi arrivare.
Esattamente come per un viaggio, una malattia rappresenta un semplice contrattempo. Abbiamo bisogno di una mano, a cui aggrapparci. Ma è con le nostre forze che dobbiamo tirarci su. Occorre un caldo, sicuro abbraccio, entro cui sentirsi protetti, riscaldati. Come per un fanciullo, che rovina a terra. I genitori gli tendono una mano, lui si rialza, e loro lo rincuorano. E lo rendono più forte, lo fanno crescere, fiducioso nei propri mezzi.
La sicurezza.
Questo è l’ingrediente indispensabile per ripartire.
Verso dove?
Ma perché lo volete sapere?!
L’importante è ripartire. Avremo una vita intera per capire dove vogliamo andare. Ma nel frattempo, la vita, ce lo vogliamo godere o no?
La vita che viviamo spesso non ci appartiene.
Quarto dato di fatto.
Perché, non è vero?
Vogliamo apparire diversi da quello che realmente siamo.
La natura più intima viene nascosta e camuffata, per diventare una proiezione di quello che qualcuno vorrebbe fossimo.
È così, non riuscirete a contraddirmi. Il successo delle chat, prima, e dei social, ora, non avrebbe ragion d’essere, se avessi realmente torto.
Questo ultimo dato di fatto è il nodo di tutta la faccenda.
Va scardinato, bisogna liberarsi da questo giogo. Distruggiamo il nostro io virtuale e liberiamo la nostra vera natura. Siamo stelle che scintillano sin dalla notte dei tempi, ma ci ostiniamo a creare, cullare e far crescere degli alter ego che proiettano desideri non nostri. Fuggiamo dalla nostra condizione di malati. Temiamo lesa la nostra dignità.
Cornuti e mazziati: è così che vogliamo sentirci?
No! Io questo pensiero lo rifiuto.
Ridiamo voce alla nostra natura genuina, accettiamo e amiamo noi stessi, come esseri unici e magnifici. E tutto quello che ho appena scritto diventerà superfluo.
Il mondo è popolato da esseri belli per natura, ma temibili per vocazione. Però tutto può cambiare, ogni ordine può essere sovvertito. Semplicemente, basterà voler essere contenti. Il mondo che costruiamo noi adulti è folle. Un’offesa alla bellezza della vita. Dimentichi delle nostre infanzie lo guastiamo. Stravolgiamo gli ordini delle cose, facendo diventare priorità l’inutile, rinunciabile l’indispensabile.
Un bambino sceglierebbe mai di barattare il divertimento con un lavoro alienante, solo per avere qualche soldo in più per pagare gli oggetti e gli svaghi con cui si edulcora l’esistenza?
No, un bambino non ha nulla da edulcorare.
Quando un bambino cade a terra, che fa?
Si rialza.
Piange?
Eccome. Poi, però, si lascia consolare e, asciugate le lacrime, ricomincia a correre.
E allora, dopo la brutta caduta che la malattia vi ha fatto prendere, piangete.
Gridate!
Sperimentate ogni grado e livello di dispiacere, svuotate la rabbia che riempie il cuore.
Finalmente esausti, ora, lasciatevi consolare.
Perché poi, asciugati i visi, giungerà l’ora di rimettersi a correre incontro alla vita.
Possiamo tutto, basta solo volerlo.
Ultimo dato di fatto.