PERCHÈ, PRIMA O POI, UNA CURA LA TROVANO... MA NEL FRATTEMPO DIAMOCI UNA MANO PER NON PERDERCI NELLA NOTTE

mercoledì 28 settembre 2016

Il mio pensiero


Questo è un post a cui penso da tempo.
Da tanto tempo, in realtà.
Ma sebbene su questi ragionamenti ci sia passato a più riprese, il post che segue è uno di quelli che scrivo di getto, senza anteporre filtri tra il mio cuore e le mie dita.
Voglio condividere quella che è la mia visione della situazione.

Senza giri di parole, senza falsi salamelecchi. 




Siamo malati. Primo dato di fatto.

E’ colpa nostra?

No.

E’ colpa di qualcuno?

No.

E se anche fosse?

Cambierebbe qualcosa?

Trovare un capro espiatorio ci consegnerebbe la guarigione dalle nostre sofferenze, al prossimo risveglio?

No.

E allora?

Cos’è questa battaglia?

Una guerra senza quartiere contro un nemico inesistente, che ci trasforma nello spettro di ciò che dovremmo essere.

Siamo cigni bellissimi che dovrebbero inseguire orizzonti radiosi, e invece ci ostiniamo a voler somigliare a corvi in volo perpetuo, intrappolati nella notte più buia.

La vita è una cosa magnifica. Secondo dato di fatto.


La malattia può cambiare questa evidenza?

No.

La malattia è inerme.

Siamo noi a darle volto e corpo, consegnandole fattezze quasi umane.

A darle potere è la nostra rabbia.

Le nostre forze, mal convogliate, ci si rivoltano contro.

E ci avvelenano.

Distruggono la bellezza che è in noi.

Intrinseca.

Imprescindibile.

Noi siamo esseri di pura bellezza.

Ad ogni nostro respiro, ci mescoliamo con l’universo infinito, in cui esistiamo.

E allora perché chiamiamo “QUELLA STRONZA” la malattia di Stargardt?

A che serve?

Alimentare odio….genera sofferenza.

E a soffrire sono quelli che si vorrebbe aiutare.

E qui mi rivolgo a chi sta intorno a noi malati.

Siamo malati.

E allora?

Quello che avremmo dovuto essere, non potremo diventare.

E allora?

E chi l’ha detto?

Il nostro destino è mutevole.

Ne siamo padroni.

Plasmabile secondo i nostri sogni.

Nostri, appunto.

Ogni notte, però, i sogni si rinnovano.

Si evolvono. in continuo divenire.

Mutano con i nostri desideri.

Perché restare ancorati alle proiezioni di una vita che doveva essere e che, invece, non sarà?

Ma chi l’ha detto, poi, che non sarà?

Il bello di un viaggio è il viaggio in se. Non la meta. Terzo dato di fatto

Come?!

Non siete d’accordo?

Allora, per voi, tutti i respiri spesi durante un viaggio sono come buttati nel cesso.

Oppure no?

Se è importante il viaggio, allora, chi se ne frega se si arriva a meta oppure no.

E, metti, che in viaggio decidi che non ti va più di arrivare dove volevi quando sei partito?

L’uomo ha il proprio destino stretto in mano.

Può cambiare direzione in ogni momento.

Altrimenti che senso avrebbe tutto?

E se durante il viaggio si rompe l’auto?

Che si fa?

Si rinuncia?

Si può, senza dubbio.

Libero arbitrio.

Liberi di decidere per l’opzione sofferenza, e lacrime perpetue.

Oppure si alza il pollice al cielo, si tende una mano, e si coglie un abbraccio.

E la marcia riprende.

In un’altra direzione, magari.

Perché quell’abbraccio può far capire che la meta iniziale non era veramente dove si voleva arrivare.

Come in un viaggio, una malattia rappresenta un semplice contrattempo.

E allora abbiamo bisogno di una mano, tesa, a cui aggrapparci, tirandoci su con le nostre forze.

E di un caldo e sicuro abbraccio, entro cui sentirsi protetti, riscaldati.

Sicurezza.

Questo occorre per ripartire.

Verso dove?

Ma perché lo volete sapere?

L’importante è ripartire.

Avremo una vita intera per capirlo.

Ma nel frattempo, la vita, questo viaggio unico, ce lo vogliamo godere o no?

La vita che viviamo, spesso non ci appartiene. Quarto dato di fatto.


Perché, non è vero?

Vogliamo apparire diversi da quello che realmente siamo.

La natura più intima viene nascosta e camuffata, per essere la proiezione di quello che qualcuno vorrebbe fossimo.

E’ così.

Non riuscirete a contraddirmi.

Il successo delle chat, prima, e dei social, ora, non avrebbe ragion d’essere, se avessi davvero torto.

Questo ultimo dato di fatto è il cardine di tutta la faccenda.

Scardiniamo questo giogo.

Distruggiamo il nostro io virtuale e liberiamo la nostra vera natura.

Siamo bellissimi.

Stelle che scintillano, uniche, sin dalla notte dei tempi.

E invece ci ostiniamo a creare, cullare e far crescere un alter ego che proietta desideri non nostri.

Ma se ridaremo voce alla vnostra genuina natura, accettando e amando noi stessi come esseri unici e magnifici, tutto quello che ho scritto nelle righe qui sopra apparirà superfluo.

E me lo auguro.

Ve lo auguro.

Perché il mondo è popolato da esseri umani.

Belli per natura, temibili per vocazione.

Ma tutto può cambiare.

Ogni ordine può essere sovvertito.

Basta voler essere contenti.


Ora, ne sono sicuro, molti penseranno che è facile parlare dietro all’interfaccia di un blog.

Io non voglio convincere nessuno.

Non è lo scopo per cui questo blog è nato.

Non è la mia missione.

Io vi racconto i miei pensieri, con la speranza che vi possano essere di qualche utilità.

Ma per mostrare la coerenza di quello che racconto, e che faccio, ritengo doveroso raccontare qualcosa di me.

A 19 anni mi è successa una cosa che ha stravolto l’ordine più o meno stabilito di quello che doveva essere il mio domani.

Un evento critico, che mi sono andato a cercare col lanternino, ma di cui non farò menzione.

Vi basti sapere che la penombra e l’apatia erano le mie fide compagne del quotidiano.

Era l’estate della maturità.

Uno dei periodi più belli della vita comune.

Per me un momento di profonda riflessione.

Mi sono accorto di non essere in pace con il mio io interiore.

Non vedevo un domani.

Temevo per la mia libertà.

E così ho scelto.

Di cambiare.

Aria.

Città.

Stile di vita.

Direzione.

Contrariamente alle indicazioni dei professori delle scuole appena concluse, decisi di iscrivermi all’università.

Mi sono diplomato per il rotto della cuffia.

Ogni anno, gli scrutini erano portatori di terrore per me e la mia famiglia.

Sempre sul filo della sufficienza.

Perché studiavo?

Perché si doveva fare.

E dopo 14 anni di studi, ora non avrei dovuto più farlo.

Diplomato, con 42/60.

Abbastanza per poter fare concorsi pubblici, ma un soffio sopra il limite inferiore.

Ovvero, mediocrità.

Libero dalla costrizione dei libri e dei quaderni, decisi di mettermi volontariamente con il capo chino a studiare.

Ancora.

Tanti libri.

34 esami.

Tre di questi ripetuti due volte.

Mai, però, avrei potuto lontanamente immaginare cosa, l’università, avrebbe rappresentato per me.

Per la mia anima.

Per la mia coscienza.

Per la mia crescita.

Sei anni.

Sì, uno in più del dovuto.

Ma non come in quarta superiore, dove mi feci volontariamente bocciare.

Volevo capire e comprendere ogni singolo concetto, intrappolato nei pesanti e costosi tomi accademici, che la mia famiglia era chiamata a farmi avere.

Con sacrificio.

E così, per amore del sapere, mi sono allungato di un anno.

Conclusi gli studi, con lode, arrivai come un treno nel mondo del lavoro.

E scoprii che la mia laurea non mi avrebbe aperto nessuna porta.

Le frottole che il sistema raccontava, si stavano svelando in fretta.

Primo grosso intoppo del secondo millennio.

Deluso?

Eccome.

Arrabbiato?

Come un cane inferocito.

E quindi?

Iniziai a capire che forse, gli studi,fossero in realtà serviti a farmi conoscere e imparare tante cose.

Mi hanno fatto fare un’esperienza umana incredibile.

Libertà.

Confronto.

Divertimento.

Responsabilità.

Indipendenza.

Questo, ha comportato la sacra pergamena.

Non la garanzia di un’occupazione “secondo cronache”, ben remunerata e consona al rango a cui, nell’immaginario comune, il titolo di dottore mi avrebbe dovuto elevare.

E d’un tratto, il tipo di lavoro e il risentimento verso “quegli anni buttati”, non hanno avuto più senso.

Importante era lavorare.

Perché quando ti fai certe domande, inizi a ricordare che da piccino, avevi tanti sogni.

E qualcuno, lo riporti al presente da un passato non poi così lontano.

Dopo 5 anni, arrivò la diagnosi genetica. In realtà un’ipotesi mi fu proposta già l’anno successivo alla laurea, ma non me ne preoccupai troppo, allora. Ero proiettato verso una vita non mia.

Il mondo, in quell’ottobre 2009, si fece tutto nero.

Di nuovo dubbi.

Timori.

Ma questa volta, nella mia nuova vita da uomo indipendente nel pensiero e nella quotidianità, non mi trovai a pensare da solo.

Avevo una persona al mio fianco.

E in due, si ragiona molto meglio.

Rimasto anche senza lavoro, proprio per via della mia condizione di ipovedente, iniziai a scrivere questo blog. E contemporaneamente, presi ad amare visceralmente il mio tempo libero da disoccupato.

Ma durò poco.

Per fortuna o purtroppo.

Trovai entro un mesetto un lavoro.

Part Time. In parafarmacia.

Quanti part e para… ero preoccupato, ma in verità questa fu la mia fortuna più grande.

Costretto a una decrescita da una malattia.

Costretto a rivedere l’impostazione economica della propria vita per via delle ridotte ore lavorative.

Costretto ad avere tanto tempo libero.

Da questa “quasi” oscena formula, la risultante è stata la mia salvezza.

Tempo libero, vita meno onerosa, uguale serenità di pensiero.

E quando la mente spazia, volando leggera tra sogni e preoccupazioni, la soluzione ad ogni guaio si scova senza troppa fatica.

E si risparmia qualche tonnellata di ansia.

La malattia ha cambiato, insieme al resto, il quadro di lettura della mia vita.

I vecchi sogni, le vecchie ambizioni, d’un tratto mi sono sembrate il frutto di un lavaggio di cervello, che non avevo compreso di aver subito.

E il mio io più tenero, il piccolo Donatello lasciato a giocare nel prato, 28 anni più indietro, è tornato a far sentire la sua voce al mio cuore.

Ma non riuscivo a capire bene cosa mi urlava.

Gridava in una lingua poco comprensibile, alle mie orecchie di adulto.

Ci sono voluti altri tre anni, e altra strada percorsa con la mia malattia, per darmi la chiave di comprensione al suo linguaggio.

Con la nascita di mio figlio, che in realtà solo due anni prima non avrei voluto mettere al mondo, per timore di potergli forse trasmettere la malattia, ho avuto chiara ogni singola parola.

Il mondo che costruiamo noi adulti, dimentichi delle nostre infanzie, è aberrante.

Un’offesa alla bellezza della vita.

Stravogliamo gli ordini delle cose.

Facciamo diventare priorità il superfluo, e rinunciabile l’indispensabile.

Un bambino sceglierebbe mai di barattare il divertimento con un lavoro alienante, solo per avere qualche soldo in più per pagare gli oggetti e gli svaghi con cui si edulcora l’esistenza?

No.

Quando un bambino cade, anche rovinosamente, a terra, che fa?

SI rialza.

Piange?

Eccome.

Ma poi si lascia consolare, e asciugate le lacrime, ricomincia a correre.

E allora, cari tutti, dopo la brutta caduta che la Stargardt vi ha fatto prendere, piangete, gridate, svuotatevi della rabbia che vi riempie cuore e stomaco, e lasciatevi consolare.

Perché poi, asciugati i vostri visi, sarà ora di rimettervi a correre incontro alla vita.

Potete tutto.

Basterà solo volerlo.


6 commenti:

  1. Bellissimo post Donato! Quello che ci frega nella vita è il nostro "falso sé" costruitoci addosso dalla famiglia e dalle esigenze della società, riconoscerlo è una dura battaglia ma significa riconoscersi e dare voce alla notra più intima natura la nostra anima ,riscoprire il fanciullo e lasciarlo giocare è una rinacita! Buon pomeriggio MITICO Dipo ciao da billo

    RispondiElimina
  2. Sei una persona meravigliosa.E queste tue parole non fanno che confermarmelo.Grazie, grazie grazie.Le sottoscrivo una ad una.Susanna

    RispondiElimina
  3. Grazie di cuore per il vostro apprezzamento! Un abbraccio...

    RispondiElimina
  4. Meraviglioso e vero.A quest elevazione ci si arriva solo col tempo e con l'anima forgiata dalle avversità.Grazie ..
    GRAZIE DI TUTTO

    RispondiElimina
  5. Uno delle cose più belle che abbia mai letto.

    RispondiElimina

Translate